Varcare il portone del Chiostro dei Domenicani per poi percorrere quel severo porticato fino al lato opposto dove si apriva la “Sala Capitolare”, per me bambino, era sempre una forte emozione. Si tratteneva il fiato. Era come entrare in un luogo sacro. Era quello, negli anni Cinquanta, il “luogo” della cultura della città di Bolzano.
Da una parte il Conservatorio dove suonava Arturo Benedetti Michelangeli e dall’altra lo spazio dove i più apprezzati artisti della città esponevano le loro opere migliori. Erano gli anni in cui si volevano mettere rapidamente alle spalle i ricordi tragici della guerra. Si guardava con fiducia al futuro, alla ricostruzione, alla riscoperta di un nuovo benessere.
Erano quelli gli anni dell’entusiasmo, quelli in cui si cercavano, e si affermavano, nuovi status symbol: la 600 che ci portasse in montagna a sciare, la televisione dove restare incollati giovedì sera per Lascia o raddoppia, mettere assieme una collezione di bei quadri che arricchisse e desse pregio alla nostra casa. E proprio in quegli anni di piccole conquiste e sudate soddisfazioni, mio padre mi “regalava” la visita alle opere dei Maestri che esponevano “alla Capitolare”. Ogni volta c’era qualcosa di diverso da vedere e da ammirare.
Quella angusta sala in fondo al chiostro svelava puntualmente storie e piccoli tesori inattesi, opere di artisti di cultura italiana o sudtirolese. Vuoi le marine di Ulderico Giovacchini o i paesaggi di Hubert Mumelter, o le città di Elio De Biasi, fino ai labirintici, ma sempre rassicuranti boschi che solo il pennello di Pepato Franci sapeva tracciare sul cartoncino.
Il bosco di Franci non era mai un luogo inquietante, che trasmetteva ansia. Non era né una “selva oscura”, né “der dichte Wald” della cultura germanica. Era, ed è, un luogo di pace e di serenità: la novella Arcadia. Ed è stato proprio quel senso di tranquillità, che le sue opere riuscivano a trasmettere, la chiave di un successo personale che fece di lui il pittore di riferimento di una società che guardava al futuro e che voleva circondarsi di nuove certezze.
Danilo Pepato Franci, veneto di origine, era rimasto affascinato dalla selvaggia bellezza delle montagne dolomitiche, dalle mille sfumature verdi delle sue foreste e dai colori e dai profumi dei suoi fiori. Come pochi è riuscito ad immortalare quel mondo forte che amava e in cui la natura era la protagonista assoluta. In quel mondo di emozioni, di attimi, di solitudine e di riflessione ha saputo cogliere l’essenza della natura e l’ha portata, con gioia, nelle case dei bolzanini e dei suoi tantissimi estimatori.
Bene fanno i suoi figli Alberto e Alessandra a voler ricordare l’opera di un artista che è stato protagonista di un’epoca feconda e felice. Già una decina di anni fa, nell’ottobre del 2012, ho voluto ricordare questo artista con una mostra omaggio all’Espace La Stanza.
E’ giusto, quindi, che oggi la città di Bolzano ricordi in maniera organica e compiuta un protagonista di giorni stimolanti e proficui che oggi corrono il rischio di un immeritato oblio.
“Bolzano, dicembre 2021”